SPANDITA MALIK | Jāḷī - Meshes of Resistance
@Spandita Malik, Courtesy Robert Mann Gallery
Spandita Malik
Jāḷī – Meshes of Resistance
«Sono una donna nata e cresciuta in India, e la mia attività artistica si lega all’esperienza diretta della disuguaglianza di genere e alla cultura della violenza sulle donne, fenomeni che mi hanno influenzato soprattutto negli anni della mia formazione, quando mi sono trasferita a Nuova Delhi, proprio al tempo dello stupro di Nirbhaya. Il peso di quel momento e l’opprimente normalizzazione della violenza di genere hanno plasmato profonadamente la mia visione del mondo, innescando in me l’urgenza insopprimibile di sfidare l’ingiustizia sistemica tramite il racconto per immagini.
Nelle mie opere cerco senza sosta di coniugare fotografia, arte tessile e pratica sociale, spesso in collaborazione con donne di ogni parte dell’India che sono state vittime di violenza domestica e ora fanno parte di gruppi di ricamo, creati come strumenti comunitari di auto-aiuto. Questi rapporti si costruiscono grazie alla condivisione del linguaggio, alla fiducia e all’ascolto.
Con il preciso obiettivo di distanziarmi dallo sguardo coloniale storicamente presente nella fotografia documentaria dell’India, stampo i ritratti sul khadi, un tessuto di cotone filato e tessuto a mano che ha svolto un ruolo fondamentale nel movimento indipendentista indiano. Oltre a essere simbolo di resistenza, il khadi ha un valore culturale e tattile che lega l’opera al luogo e alla memoria. Invito poi le donne a ricamare su questi ritratti come meglio credono, rendendole autrici a pieno titolo della loro rappresentazione: un gesto semplice, che diventa strumento di empowerment, aiutandole a esprimersi con il mestiere che hanno ereditato.
Questi ritratti ricamati fanno parte dei miei progetti Nā́rī, Vadhu e Jāḷī – Meshes of Resistance, iniziative tuttora in corso che mirano a creare uno spazio in cui le donne decidono come essere osservate. Cucire diventa un atto di resistenza e, al tempo stesso, un linguaggio tramandato di generazione in generazione: un linguaggio tradizionalmente femminile, intimo e tattile. Sempre più donne aderiscono alla rete, e le opere crescono in maniera organica.
La fotografia per me è diventata un modo per ripensare i concetti di autorialità e rappresentazione. Se una fotografia dice “Ecco come ti vedo”, il ricamo risponde “Ecco chi sono”. Queste opere non sono solo ritratti, ma atti di resistenza, in cui il mestiere si fa gesto politico e ogni punto cucito reclama spazio, voce e visibilità per donne a lungo zittite. Con queste collaborazioni la mia pratica diventa una forma di attivismo basato sulla cura, la solidarietà e il potere trasformativo del fare.»
Spandita Malik (1995) è un’artista visiva indiana che vive a New York. Unendo fotografia, arte tessile e pratica sociale, esplora i concetti di genere, autorialità e rappresentazione. Attraverso processi collaborativi e interventi artigianali, dialoga con attività tradizionali come il ricamo e la narrazione condivisa, usandole per sfidare le dinamiche di potere dominanti nella fotografia documentaria e ridefinire la prospettiva da cui viene vista la vita delle donne. I progetti di Malik sono stati esposti in importanti istituzioni e le sono valsi numerose borse di studio.
Le sue opere e la sua voce sono state pubblicate su testate come «The New York Times», «The Guardian», «The Washington Post», «Artsy», «The Times», «Elephant Magazine», «British Journal of Photography». Laureata in fotografia alla Parsons School of Design, Malik lavora come fotografa freelance per il «New York Times». Con la sua attività documentaristica trasforma la creazione di immagini in un luogo di resistenza collettiva, cucendo insieme memoria, azione personale e solidarietà.
Spandita Malik
Jāḷī – Meshes of Resistance
«Sono una donna nata e cresciuta in India, e la mia attività artistica si lega all’esperienza diretta della disuguaglianza di genere e alla cultura della violenza sulle donne, fenomeni che mi hanno influenzato soprattutto negli anni della mia formazione, quando mi sono trasferita a Nuova Delhi, proprio al tempo dello stupro di Nirbhaya. Il peso di quel momento e l’opprimente normalizzazione della violenza di genere hanno plasmato profonadamente la mia visione del mondo, innescando in me l’urgenza insopprimibile di sfidare l’ingiustizia sistemica tramite il racconto per immagini.
Nelle mie opere cerco senza sosta di coniugare fotografia, arte tessile e pratica sociale, spesso in collaborazione con donne di ogni parte dell’India che sono state vittime di violenza domestica e ora fanno parte di gruppi di ricamo, creati come strumenti comunitari di auto-aiuto. Questi rapporti si costruiscono grazie alla condivisione del linguaggio, alla fiducia e all’ascolto.
Con il preciso obiettivo di distanziarmi dallo sguardo coloniale storicamente presente nella fotografia documentaria dell’India, stampo i ritratti sul khadi, un tessuto di cotone filato e tessuto a mano che ha svolto un ruolo fondamentale nel movimento indipendentista indiano. Oltre a essere simbolo di resistenza, il khadi ha un valore culturale e tattile che lega l’opera al luogo e alla memoria. Invito poi le donne a ricamare su questi ritratti come meglio credono, rendendole autrici a pieno titolo della loro rappresentazione: un gesto semplice, che diventa strumento di empowerment, aiutandole a esprimersi con il mestiere che hanno ereditato.
Questi ritratti ricamati fanno parte dei miei progetti Nā́rī, Vadhu e Jāḷī – Meshes of Resistance, iniziative tuttora in corso che mirano a creare uno spazio in cui le donne decidono come essere osservate. Cucire diventa un atto di resistenza e, al tempo stesso, un linguaggio tramandato di generazione in generazione: un linguaggio tradizionalmente femminile, intimo e tattile. Sempre più donne aderiscono alla rete, e le opere crescono in maniera organica.
La fotografia per me è diventata un modo per ripensare i concetti di autorialità e rappresentazione. Se una fotografia dice “Ecco come ti vedo”, il ricamo risponde “Ecco chi sono”. Queste opere non sono solo ritratti, ma atti di resistenza, in cui il mestiere si fa gesto politico e ogni punto cucito reclama spazio, voce e visibilità per donne a lungo zittite. Con queste collaborazioni la mia pratica diventa una forma di attivismo basato sulla cura, la solidarietà e il potere trasformativo del fare.»
Spandita Malik (1995) è un’artista visiva indiana che vive a New York. Unendo fotografia, arte tessile e pratica sociale, esplora i concetti di genere, autorialità e rappresentazione. Attraverso processi collaborativi e interventi artigianali, dialoga con attività tradizionali come il ricamo e la narrazione condivisa, usandole per sfidare le dinamiche di potere dominanti nella fotografia documentaria e ridefinire la prospettiva da cui viene vista la vita delle donne. I progetti di Malik sono stati esposti in importanti istituzioni e le sono valsi numerose borse di studio.
Le sue opere e la sua voce sono state pubblicate su testate come «The New York Times», «The Guardian», «The Washington Post», «Artsy», «The Times», «Elephant Magazine», «British Journal of Photography». Laureata in fotografia alla Parsons School of Design, Malik lavora come fotografa freelance per il «New York Times». Con la sua attività documentaristica trasforma la creazione di immagini in un luogo di resistenza collettiva, cucendo insieme memoria, azione personale e solidarietà.
Ingresso a pagamento
Vecchia Pescheria - Corso Vendemini 51
Orari
12 settembre ore 18/24
13 settembre ore 9/24
14 settembre ore 9/20
20-21 settembre, 27-28 settembre ore 10-20
INGRESSO MOSTRE
12 € / 5 € residenti di Savignano / gratuito under 14